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With
their velvety though intense sepia toning, Martin Cooper's nudes
evoke distant and mysterious photographic images of the past. Here and
there, a feather, a cord or ribbon strike through the surface in a suffused
brilliance against the golden bodies of these undraped goddesses, portrayed
in poses we associate with the Olympic athletes of the classical age.
"The Greek games were a religious rite performed in the nude,"
Cooper explains, "and women were banned from participating. Failure
to comply was a crime punishable by death. 'The Altis: Portraits
of the Immortals' defies the ancient archetype to exalt women to
their rightful place in the world." In his series "Altis,"
which was the Greek name for the sacred wood on Olympia, Martin Cooper
simultaneously calls into question the male myth of the Greek athletes
while promoting the participatory interests of those individuals on
the other side of the gender coin, even while repudiating the pumped-up
look of many of today's female contenders.
Inaccessible and ambiguous, suspended between myth and reality, the
past and the future, Cooper's fair immortals don't passively expose
themselves to the voyeuristic gaze but challenge the viewer on equal
footing, emboldened by their own mystification. The sheer strangeness
of these images distances them from both those contemporary nudes based
in a broadband eroticism as well as from those early 20th-century works
to which they allude, at least at first glance. We search for possible
sources of inspiration in the women athletes appearing in Leni Riefenstahl's
documentary film Olympia, or the robust female nudes taken in the 20s
by Julius Gross for the Wandervögel naturist movement. But Cooper's
work shares little with Riefenstahl's Übermensch agenda or Gross's
ingenuous holistics.
Wherein lies the mystery of these images, that conceal themselves from
view even as the subjects expose themselves? Let's look for an answer
by stepping back in time to the original Greek Games. Why or in whose
honor were the Olympics organized? It certainly wasn't a question of
exalting the human body and its beauty. The Games were celebrated as
funereal rites, to commemorate the passing of the late great, like the
dragon Python, killed by Apollo at Delphi; the child Melicertes, transformed
into a sea god after being thrown into the sea at Isthmia; or the hero
Pelops, who died on Olympus after having defeated the evil Oenomaus
in a chariot race. But there was something still more profound that
conjoined the afterworld to those ideals of health, vigor, and beauty
epitomized by the athlete as mortal stand-in for the gods. For the Greeks,
death meant taking your place in that dank, formless land of Hades,
where any sense of one's individuality dissolved in the darkness. There
was only one way to avoid this faceless future: to perform an extraordinary
task while still in the world of the living, rendering oneself worthy
of eternal commemoration. From this point of view, winning at the Games
meant attaining immortality. While the losers would disappear in the
shadows of oblivion, those who vanquished the common mortals were assured
a place among the gods, or nearly so, and celebrated for the duration.
(Koroibos of Elis is still memerbered today as the winner of the first
Olympic Games in 776 B.C.)
If Martin Cooper's athletes escape the debasement of a nude that bares
all, their modesty lies not in the drapery but in reviving the original,
the mythic Olympians with their mysterious cognition of death and transcendency.
His images rise up from the past to transform the female body into the
inscriptions of legends and divinities that rouse our imagination and
our memory. Unlike the bodies we encounter in the mass media - flattened
into an image of false, homogenous and paradoxically deadened vitality
- Cooper's nudes are loaded, as in the past, with symbolic ambiguity,
transfigured to an immortal status after stepping through the shadow
of death unshrouded.
Gigliola
Foschi
All
images courtesy Gallery Le Bureau des Esprits, Milan,
and Nikolai Fine Art, New York
Le
immagini, virate in un vellutato e intenso color seppia, rievocano lontane
e misteriose fotografie del passato. Qua e là una piuma, una
corda o un nastro risaltano di un biancore soffuso, accostate e avvolte
come sono attorno a corpi femminili nudi, mitici, ritratti in pose simili
a quelle degli antichi atleti dei Giochi olimpici. Racconta Martin
Cooper, autore di queste immagini: "I giochi greci erano un
rito religioso dove gli uomini si confrontavano nudi, privi di ogni
indumento. Un rito vietato alle donne, tanto che l'inosservanza di tale
proibizione era considerata un crimine punito con la morte. The Altis.
Portraits of the Immortals, sfida questo divieto archetipico per
elevare le donne riportandole al loro legittimo posto nel mondo".
Con Altis - nome greco del bosco sacro situato nel santuario di Olimpia
- Martin Cooper attua al tempo stesso un rovesciamento del mito maschile
degli atleti greci e un'esaltazione dell'identità femminile,
rifiutandosi però di "innestare" banalmente sul corpo
delle sue donne-eroi i muscoli rigonfi e palestrati che oggi sono divenuti
sinonimo della prestanza atletica mascolina.
Inaccessibili, ambigue, come sospese tra realtà e mito, tra passato
e futuro, le donne-immortali di Cooper non espongono supinamente la
loro nudità a sguardi voyeuristici, ma ci sfidano come presenze
altere, pervase di mistero. Un mistero che le allontana, oltre che dalle
immagini contemporanee dove la trasparenza del sesso è divenuta
totale, anche dalle immagini di nudo dei primi del Novecento, cui sembrerebbero
di primo acchito voler alludere. Proviamo infatti a confrontarle con
le donne del film Olympia di Leni Riefenstahl, o con le fotografie di
corpi femminili nudi in pose ginniche, realizzate negli anni Venti da
Julius Gross per il movimento naturista dei Wandervögel: subito
ci accorgeremo di quanto esse siano lontane sia dalla retorica classicista
della Riefenstahl, sia dall'ingenuo vitalismo salutistico di Gross.
Qual è dunque il mistero di queste immagini, che sembrano insieme
velarsi e svelarsi sotto i nostri sguardi? Facciamo un passo indietro
e torniamo agli Agoni panellenici, per chiederci in onore di chi e perché
questi giochi venivano celebrati. Ebbene, essi non erano nati per esaltare
banalmente il culto del corpo e della bellezza, ma come riti funebri
in cui il gioco serviva a venerare e a ricordare un defunto: il serpente
Pitone ucciso da Apollo a Delfi; il bambino Melicerte, trasformato in
un dio marino dopo essere stato gettato in acqua di fronte a Istmia;
l'eroe Pelope, morto a Olimpia, dopo aver sfidato il crudele re Enomao
in una cruenta corsa con le quadrighe. Ma qualcosa di più profondo
ancora avvicinava al mondo della morte quell'ideale di salute, bellezza
e vigoria fisica, incarnato dall'atleta quale modello simile agli Dei.
Per i greci morire significava entrare in un mondo orrido, indistinto,
in cui la singolarità di ciascuno tendeva a confondersi, a sparire
nel buio. Per sfuggire alla terribilità della morte e dell'oblio
c'era un unico modo: compiere un'impresa straordinaria e divenire così
degno di memoria eterna. Da questo punto di vista vincere alle Olimpiadi
significava trasformarsi in un immortale. Mentre i perdenti si sarebbero
dissolti nel buio della dimenticanza e di un tetro aldilà, per
converso l'atleta vittorioso, sovrastando i comuni mortali, sarebbe
divenuto una sorta di "dio", ricordato in eterno: come Corebo
di Elide, ad esempio, conosciuto ancora oggi in quanto primo vincitore
della prima Olimpiade del 776 a.C. AInsomma, se le atlete di Martin
Cooper sfuggono all'oscenità di un nudo privo di segreti, riescono
a farlo non già attraverso una messa in scena del pudore, bensì
ripresentificando il mito degli atleti olimpici e con esso il mistero
della morte e della trascendenza. Le sue immagini, come affioranti dal
passato, trasformano così nuovamente i corpi femminili in iscrizioni
di miti e divinità capaci di sollecitare il nostro immaginario
e la nostra memoria. Ai corpi dei mass media, appiattiti in un'immagine
di falsa e univoca vitalità, che di fatto li fa sembrare come
morti, egli oppone immagini di corpi nuovamente carichi di ambivalenze
simboliche, immortali proprio perché passati attraverso il fantasma
di una morte che non hanno cercato di occultare.
Gigliola Foschi
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