ZOOM: THE MAGIC BODY SPECIAL ISSUE
featuring The Altis, a 6 page
portfolio with essay by Gigliola Foschi
JULY/ AUGUST 2001; pp.50-55.

   
 
 
from left to right; Training Harness, No3; Boxer Profile, The Graces; Diskos Profile;
Sizing the Harness; Strung Peony.
 
 

With their velvety though intense sepia toning, Martin Cooper's nudes evoke distant and mysterious photographic images of the past. Here and there, a feather, a cord or ribbon strike through the surface in a suffused brilliance against the golden bodies of these undraped goddesses, portrayed in poses we associate with the Olympic athletes of the classical age. "The Greek games were a religious rite performed in the nude," Cooper explains, "and women were banned from participating. Failure to comply was a crime punishable by death. 'The Altis: Portraits of the Immortals' defies the ancient archetype to exalt women to their rightful place in the world." In his series "Altis," which was the Greek name for the sacred wood on Olympia, Martin Cooper simultaneously calls into question the male myth of the Greek athletes while promoting the participatory interests of those individuals on the other side of the gender coin, even while repudiating the pumped-up look of many of today's female contenders.


Inaccessible and ambiguous, suspended between myth and reality, the past and the future, Cooper's fair immortals don't passively expose themselves to the voyeuristic gaze but challenge the viewer on equal footing, emboldened by their own mystification. The sheer strangeness of these images distances them from both those contemporary nudes based in a broadband eroticism as well as from those early 20th-century works to which they allude, at least at first glance. We search for possible sources of inspiration in the women athletes appearing in Leni Riefenstahl's documentary film Olympia, or the robust female nudes taken in the 20s by Julius Gross for the Wandervögel naturist movement. But Cooper's work shares little with Riefenstahl's Übermensch agenda or Gross's ingenuous holistics.
Wherein lies the mystery of these images, that conceal themselves from view even as the subjects expose themselves? Let's look for an answer by stepping back in time to the original Greek Games. Why or in whose honor were the Olympics organized? It certainly wasn't a question of exalting the human body and its beauty. The Games were celebrated as funereal rites, to commemorate the passing of the late great, like the dragon Python, killed by Apollo at Delphi; the child Melicertes, transformed into a sea god after being thrown into the sea at Isthmia; or the hero Pelops, who died on Olympus after having defeated the evil Oenomaus in a chariot race. But there was something still more profound that conjoined the afterworld to those ideals of health, vigor, and beauty epitomized by the athlete as mortal stand-in for the gods. For the Greeks, death meant taking your place in that dank, formless land of Hades, where any sense of one's individuality dissolved in the darkness. There was only one way to avoid this faceless future: to perform an extraordinary task while still in the world of the living, rendering oneself worthy of eternal commemoration. From this point of view, winning at the Games meant attaining immortality. While the losers would disappear in the shadows of oblivion, those who vanquished the common mortals were assured a place among the gods, or nearly so, and celebrated for the duration. (Koroibos of Elis is still memerbered today as the winner of the first Olympic Games in 776 B.C.)


If Martin Cooper's athletes escape the debasement of a nude that bares all, their modesty lies not in the drapery but in reviving the original, the mythic Olympians with their mysterious cognition of death and transcendency. His images rise up from the past to transform the female body into the inscriptions of legends and divinities that rouse our imagination and our memory. Unlike the bodies we encounter in the mass media - flattened into an image of false, homogenous and paradoxically deadened vitality - Cooper's nudes are loaded, as in the past, with symbolic ambiguity, transfigured to an immortal status after stepping through the shadow of death unshrouded.

Gigliola Foschi

All images courtesy Gallery Le Bureau des Esprits, Milan,
and Nikolai Fine Art, New York

Le immagini, virate in un vellutato e intenso color seppia, rievocano lontane e misteriose fotografie del passato. Qua e là una piuma, una corda o un nastro risaltano di un biancore soffuso, accostate e avvolte come sono attorno a corpi femminili nudi, mitici, ritratti in pose simili a quelle degli antichi atleti dei Giochi olimpici. Racconta Martin Cooper, autore di queste immagini: "I giochi greci erano un rito religioso dove gli uomini si confrontavano nudi, privi di ogni indumento. Un rito vietato alle donne, tanto che l'inosservanza di tale proibizione era considerata un crimine punito con la morte. The Altis. Portraits of the Immortals, sfida questo divieto archetipico per elevare le donne riportandole al loro legittimo posto nel mondo". Con Altis - nome greco del bosco sacro situato nel santuario di Olimpia - Martin Cooper attua al tempo stesso un rovesciamento del mito maschile degli atleti greci e un'esaltazione dell'identità femminile, rifiutandosi però di "innestare" banalmente sul corpo delle sue donne-eroi i muscoli rigonfi e palestrati che oggi sono divenuti sinonimo della prestanza atletica mascolina.
Inaccessibili, ambigue, come sospese tra realtà e mito, tra passato e futuro, le donne-immortali di Cooper non espongono supinamente la loro nudità a sguardi voyeuristici, ma ci sfidano come presenze altere, pervase di mistero. Un mistero che le allontana, oltre che dalle immagini contemporanee dove la trasparenza del sesso è divenuta totale, anche dalle immagini di nudo dei primi del Novecento, cui sembrerebbero di primo acchito voler alludere. Proviamo infatti a confrontarle con le donne del film Olympia di Leni Riefenstahl, o con le fotografie di corpi femminili nudi in pose ginniche, realizzate negli anni Venti da Julius Gross per il movimento naturista dei Wandervögel: subito ci accorgeremo di quanto esse siano lontane sia dalla retorica classicista della Riefenstahl, sia dall'ingenuo vitalismo salutistico di Gross.


Qual è dunque il mistero di queste immagini, che sembrano insieme velarsi e svelarsi sotto i nostri sguardi? Facciamo un passo indietro e torniamo agli Agoni panellenici, per chiederci in onore di chi e perché questi giochi venivano celebrati. Ebbene, essi non erano nati per esaltare banalmente il culto del corpo e della bellezza, ma come riti funebri in cui il gioco serviva a venerare e a ricordare un defunto: il serpente Pitone ucciso da Apollo a Delfi; il bambino Melicerte, trasformato in un dio marino dopo essere stato gettato in acqua di fronte a Istmia; l'eroe Pelope, morto a Olimpia, dopo aver sfidato il crudele re Enomao in una cruenta corsa con le quadrighe. Ma qualcosa di più profondo ancora avvicinava al mondo della morte quell'ideale di salute, bellezza e vigoria fisica, incarnato dall'atleta quale modello simile agli Dei. Per i greci morire significava entrare in un mondo orrido, indistinto, in cui la singolarità di ciascuno tendeva a confondersi, a sparire nel buio. Per sfuggire alla terribilità della morte e dell'oblio c'era un unico modo: compiere un'impresa straordinaria e divenire così degno di memoria eterna. Da questo punto di vista vincere alle Olimpiadi significava trasformarsi in un immortale. Mentre i perdenti si sarebbero dissolti nel buio della dimenticanza e di un tetro aldilà, per converso l'atleta vittorioso, sovrastando i comuni mortali, sarebbe divenuto una sorta di "dio", ricordato in eterno: come Corebo di Elide, ad esempio, conosciuto ancora oggi in quanto primo vincitore della prima Olimpiade del 776 a.C. AInsomma, se le atlete di Martin Cooper sfuggono all'oscenità di un nudo privo di segreti, riescono a farlo non già attraverso una messa in scena del pudore, bensì ripresentificando il mito degli atleti olimpici e con esso il mistero della morte e della trascendenza. Le sue immagini, come affioranti dal passato, trasformano così nuovamente i corpi femminili in iscrizioni di miti e divinità capaci di sollecitare il nostro immaginario e la nostra memoria. Ai corpi dei mass media, appiattiti in un'immagine di falsa e univoca vitalità, che di fatto li fa sembrare come morti, egli oppone immagini di corpi nuovamente carichi di ambivalenze simboliche, immortali proprio perché passati attraverso il fantasma di una morte che non hanno cercato di occultare.


Gigliola Foschi